Maria Annaloro

“Così, senza sogni” Olio su tela

Il corpo nudo di una donna. È rivolta verso il mare e quasi ne prende le sfumature.
C’è tutto un significato nel raffigurare qualcuno di spalle. Celare il viso, che tradirebbe sentimenti e motivazioni, il guardare verso l’infinito, il mare di nebbia di un manifesto della pittura romantica iconico perché simboleggia Il viaggio dell’uomo nella vita. L’uomo si regge a un bastone, Le illusioni che gli permetteranno di affrontare l’ignoto. Questo è il quadro di Kaspar David Friedrich. Ma la donna raffigurata da Barbara, non ha più illusioni. E´ nuda, di fronte alla vita, e a quello che succederà, mai connessa al sublime a quell’insieme di sensazioni che si trovano di fronte allo spettacolo della natura. La mostra trova una naturale collocazione nell’Acquario e Civica stazione di Milano.
Barbara Pietrasanta vanta una lunga carriera anche se è giovane: è molto conosciuta e apprezzata nell’ambiente artistico, ed è difficile dare un nome al suo lavoro che anche se figurativo, si avvale di simboli e messaggi. Si serve di grande tecnica e di grandi contenuti, espressi con una eleganza e una raffinatezza che la distinguono dalla massa dei pseudo-artisti, che popolano l’ambiente dell’arte.
Nelle sue ultime tele, abbandonato il colore che in America, negli anni 80, aveva caratterizzato la sua opera, le sue tele sono dominate dal colore-non solo colore, Il bianco, il grigio, il beige, che sottolineano molto di più il pathos dei temi trattati.
Donne, donne sole, tra le lenzuola, con accanto una tazzina di caffè, che accentua la solitudine e la tristezza della giornata da sola, con le proprie problematiche, lì fra le lenzuola stropicciate, simbolo di una notte passata in una solitudine agitata da pensieri non positivi.
L’uomo non c’è in questo mondo popolato da donne che hanno perso un punto fermo, la stabilità, che l’altro può dare, e affrontano le tempeste della loro vita con la forza la tristezza che una donna sola sa affrontare. Qualche figura maschile è presente, ma sotto l’aspetto di gay o di transgender. Qualcuno potrebbe obiettare che Barbara vuole umiliare la figura maschile, ma la verità è che quel qualcuno non ha saputo leggere il suo messaggio.
Barbara protegge gli ultimi, quelli che la vita si diverte a umiliare. Ne è la prova il quadro su Pasolini, che mostra un ragazzo di vita, seduto a terra. E Pasolini? È lì, in quel paio di occhiali da sole neri , che lui usava come difesa contro gli sguardi troppo pesanti di chi lo giudicava senza conoscere la bellissima delicata anima di questo grande poeta dei nostri tempi. Un piccolo gioiello, un quaderno che Barbara comprò anni fa in Egitto. I fogli sono stati fatti a mano, bellissimi nella loro colorazione naturale. È stato per molto tempo chiuso in un cassetto; poi un giorno Barbara ha lasciato che la sua mano vi scrivesse pensieri, vi disegnasse sopra, creando quei “pensieri liquidi” che ne hanno fatto un carnet d’arte. Una delle installazioni curate da Barbara è la sua Via Crucis, un affresco nella chiesa Sacra Famiglia di Cinisello Balsamo, che ha la sua riproduzione a grandezza originale alla parroque Jesus Divin Maestro ad Ahuacho, Perù. Il suo è un mondo senza confini e limiti nel quale si muove, si confronta con tutte le popolazioni. Come dovrebbe essere per tutti, e non rimanere chiusi nel proprio recinto, senza sapere si cosa si muove fuori da esso. In Italia, alla Farnesina è presente con una scultura, un suo dipinto è un museo della permanente di Milano, di cui è vicepresidente. Hanno scritto di lei giornalisti ed importanti uomini della critica d’arte. Il mio è solo un omaggio alla donna che ha fatto della sua vita un capolavoro d’arte, di coerenza, di ricerca, lanciando stimoli e grandi messaggi alle donne che pensano di non avere più un motivo per riemergere dal naufragio della propria vita, e che l’unico salvagente consista nella forza e nella volontà di reagire, e di darsi degli scopi nella vita.

Claudia Migliore

L’artista con Claudia Migliore e Mauro Mariani

“Naufraghi e naufragi”

Il titolo è emblematico, la mostra in Acquario e Civica Stazione Idrobiologica trova la sua collocazione ideale.
L’artista è Barbara Pietrasanta, non ha bisogno di presentazioni, nel panorama artistico è nota, pittrice, docente e molto molto altro.
La sua carriera artistica è lunga e credo che in questa mostra abbia trovato la sua completezza, e per il tema trattato, e per il raggiungimento di una tecnica fatta esclusivamente di grandi tele ad olio. Il pathos viene raggiunto rapidamente, guardando i dipinti il climax è ai massimi livelli, all’apparenza senza il minimo sforzo.
Le tele assumono, agli occhi di chi le guarda, una finestra aperta, non solo sulla metafora della vita, ma soprattutto sulla propria esistenza, i naufragi e i naufraghi siamo noi. Le derive delle nostre vite, del nostro essere sono espressi con sapienza, e ben riflettono gli stati d’animo che ciascuno di noi almeno una volta nella vita ha conosciuto. Non è obbligatorio essere un migrante, anche se di fatto siamo tutti migranti attaccati al salvagente chiamato vita, che spesse volte ci abbandona, ci allontana, ci lascia senza fiato.
L’artista esprime un sentimento che difficilmente ammettiamo pubblicamente, il galleggiare a livello di sopravvivenza in un contesto quale quello attuale, che molto toglie e nulla lascia. Le sue tele sono un urlo, un desiderio di riscatto profondo.
L’utilizzo dei colori ad olio aumentano questa sensazione, sono il leitmotiv di un pensiero ricorrente, l’IO di ciascuno di noi che cerca una via di fuga, se non di redenzione, almeno da questa che chiamiamo vita.

Personalmente ho amato tutte le tele di Barbara, questi fondali che molto svelano dell’inquietudine, della incapacità, della impossibilità fisica che proviamo messi difronte alle avversità che possono capitarci, ma allo stesso tempo i suoi dipinti lasciano intravedere la possibilità di farcela, di crederci.
Troviamo tutto nei dipinti di Barbara Pietrasanta, il suo essere artista in un’epoca quanto mai come ora difficile, il suo essere donna, le sue capacità di resilienza, il suo sapere restare sempre attenta e vigile ai mutamenti che possono accadere, e non è facile, pittoricamente, trasporre tutto questo su una tela, soprattutto quando é bianca, muta, quando devi fare in modo che la tela diventi parte di te e ti possa raccontare.
Le tele di Barbara Pietrasanta raccontano molto di noi, guardarle e rispecchiarsi è facile, immedesimarsi è un tutt’uno, i colori ti catturano, non c’è nessuna teatralità, i suoi lavori ti aprono la mente e capisci quanto siano reali e veritieri, con un compito preciso: riappacificano il nostro animo. Si, questo è quello che accade guardando le tele di Barbara, nessuna angoscia, semmai il contrario, la luce e la speranza, presenti in ogni tela, emerge prepotente.
È un segnale potente, e lo spettatore non può non coglierlo, Barbara ti spinge ad osservare, a guardarti dentro, e il viaggio per molti doloroso, per altri dolce, ha comunque un lieto fine, non rimaniamo abbandonati a noi stessi, la fune che vediamo dipinta è il fil rouge che lega la mostra, un filo rosso che ci unisce, non si spezza, anzi, di tela in tela è sempre più forte e rafforza in noi la voglia di farcela.
Quindici tele, la maggior parte di grande formato. 
Personalmente avrei voluto ce ne fossero altre, un invito quindi a continuare,  a non fermarsi,  perché come sosteneva Marshall McLuhan il medium è il messaggio, la pittura di Barbara Pietrasanta è proprio questo.
L’elemento liquido seppur presente, passa in secondo piano rispetto al messaggio lanciato dall’artista, l’acqua diventa un pretesto, il testo è il viaggio dentro di noi, un viaggio che dura anni, che ci vede a volte sconfitti, a volte vincitori, ma soprattutto ci fa sentire vivi, reali, attaccati più che mai a quelle poche certezze che ci restano ma che sono fondamentali per andare avanti.

Charles Baudelaire scriveva: „L’impegno è quello che all’opera occorre, ma l’Arte è lunga, breve è il Tempo.“ Barbara Pietrasanta invece, ha portato a suo vantaggio proprio il Tempo il quale è stato prezioso e proficuo, e la sua Arte ne ha giovato appieno.
Una mostra raffinata, che ci svela parecchio dell’artista, del suo mondo, del suo modo di raccontare pittoricamente l’esistenza umana, e l’artista ci riesce molto bene. Una mostra che merita non solo di essere vista, deve soprattutto essere “ sentita”, “ascoltata”, perché parla di noi.

Roberto Scarpetti

Mostra all’ Acquario Civico Milano

Il Naufragio può essere una metafora forte e drammatica, applicabile a molteplici aspetti della vita di ognuno di noi, sia nella sfera intima, privata, che in quella pubblica. Naufragi personali o naufragi collettivi.
Il naufragio di questo occidente che sembra alla ricerca di una nuova identità. Di una nuova anima. O il naufragio del pianeta terra che non siamo stati in grado di salvaguardare. Il naufragio delle nostre vite improvvisamente cambiate dalla pandemia.
O il naufragio di una cultura sempre più alla deriva. Piccoli naufragi quotidiani, o grandi naufragi sociali.

Eppure, lasciando da parte il gioco delle metafore che gettate così al vento rischiano di banalizzare un po’ tutto, credo che più che i nostri destini amorosi, culturali, sociali, siano i nostri corpi a far le spese di un naufragio.
Non è un caso che l’accento nel titolo della mostra di Barbara Pietrasanta stia sulla prima parola: Naufraghi. Ed è questa parola a rimanere più impressa, al punto che sull’evento del naufragio in sé si può anche sorvolare. Quel che conta è il dopo, sono i corpi che sopravvivono ai vari naufragi, metaforici o reali che siano.
Ed è su questi corpi, sui nostri corpi, che si disegnano i destini del mondo, come un tatuaggio che non abbiamo voluto, come qualcosa impressa nei nostri occhi, nei solchi delle rughe sui nostri volti. Il naufragio come un destino che rimane marchiato sui corpi dei naufraghi. È questo che mi evocano le opere di Barbara Pietrasanta, nella collezione di “Naufraghi e naufragi”. Corpi di donne che emergono dal mare o sul mare abbandonate, donne senza alcun vestito, o con solo una sottoveste resa trasparente dall’acqua, donne su spiagge accecanti come accecante è il mare. Volti di donne attraversati da una calma che a me appare come un’indecifrabile speranza. E un solo uomo, forse, l’unico a non esser sopravvissuto al naufragio.
Queste immagini mi spingono a pensare che niente possa contare oltre ai corpi, i nostri, quelli dei veri naufraghi, o quelli dipinti da Barbara. E così non importa più cosa sia accaduto prima, non importa fino a dove ci abbia spinto il mare. Non importa il motivo, o la dinamica, e nemmeno la tragicità del naufragio. Quel che conta è la condizione di naufrago. È il dopo. Il dopo come una grande opportunità che non bisogna lasciarla sfuggire tra le mani.
In una delle domande che Barbara mi ha posto per il video della mostra mi chiedeva cosa succede il giorno dopo il naufragio.
Ecco, io credo che il giorno dopo il naufragio sia tutto diverso perché è diverso il modo in cui percepiamo le cose attorno a noi. Il naufragio ci obbliga a guardare il mondo con uno sguardo nuovo. E cambiando lo sguardo, cambia la nostra percezione della realtà che ci circonda.
Il giorno dopo il naufragio non conta più il prima, non conta il naufragio stesso, conta unicamente la condizione in cui siamo, ognuno di noi, tutti naufraghi, ciascuno con la sua storia unica e personale, ciascuno diverso, ma tutti nella stessa condizione. Una condizione che ci rende anche solo per un momento simili, e che può essere forse l’unica via per capire o sentire gli altri.

Roberto Scarpetti

Elisabetta Polezzo

Elisabetta Polezzo
Con Elisabetta Polezzo all’inaugurazione di “Naufraghi e Naufragi all’Acquario Civico di Milano

Il naufragio è un evento violento.
L’etimologia stessa della parola ne è la conferma. Navis frangere è inequivocabilmente riferito a qualcosa che si spezza, che si rompe, che viene distrutto. Naufragano le navi ma anche i sogni, le unioni, i progetti.
Nella storia dell’uomo – di cui la navigazione è parte essenziale -moltissimi sono i navigatori ma altrettanti i naufraghi, figure tipiche e ancor più topiche strettamente correlate al fallimento in mare.
Uno fra tutti, forse il più famoso, è Odisseo. Punito da Poseidone per averne accecato il figlio Polifemo, Odisseo l’ingegnoso, il luminoso, il ricco di risorse, approda semi sommerso dalle onde del mare – con la sua zattera di fortuna – sulle spiagge di una terra sconosciuta e straniera. Qui, soccorso e accolto dal popolo dei Feaci e in primis dalla sua principessa, Nausicaa dalle belle braccia, l’eroe ha modo di operare una sorta di rinascita. Nel corso di un banchetto, ad Odisseo viene chiesto di narrare le vicende della caduta di Troia e raccontando di se stesso, egli si ricostruisce. Quello che la violenza del mare ha tolto, la potenza della parola restituisce potenziato, pulito, consapevole. Il fallimento del viaggio, il suo spezzarsi contiene già i semi della rinascita, la germinazione di una nuova vita, una nuova meta. Il ripetersi costante in tutta la letteratura mondiale del tema dell’affondamento in mare, dell’inabissarsi tra le onde, parla da sé dell’importanza simbolica di questo avvenimento. Da Omero a Conrad, da Shakspeare a Defoe, passando per la cultura persiana con Sinbad o per quella ebraica con Giona, la nostra è una cultura talasso centrica. Il mare divide e unisce allo stesso tempo, indifferente al destino degli uomini. Perfino all’inizio della vita, per molti di noi, il rito che suggella il nostro affacciarci nel mondo riproduce simbolicamente un annegamento, un essere sommersi dall’acqua per poi riemergere. In fondo il battesimo cristiano altro non è che l’eterna rappresentazione di una fine, messa in scena per essere sconfitta da un inizio. Si viene sommersi soltanto per riaffiorare dopo aver sperimentato e sconfitto la morte.
La lettura dei significati simbolici del viaggio per mare spezzato e interrotto, di cui possediamo l’alfabeto – così come ci è stato consegnato dalla scoperta della psicanalisi – non ci rende certo meno fragili o vulnerabili. Le onde del mare sempre rischiano di sommergerci, quale che sia la nostra consapevolezza di esse. Il simbolo non necessita di ulteriore conoscenza. Parla da sé, da sempre con invariata potenza.
Così succede per le opere di Barbara Pietrasanta. Parlano da sole e nessuna spiegazione le contiene o le giustifica. Le sue donne, vestite con essenzialità, coperte dagli indumenti molli che la vita e la tempesta hanno loro lasciato, hanno sguardi di chi ha molto visto e molto sofferto. Sono di una bellezza livida e segnata ma non sono vinte, abbandonate al loro destino. Hanno mani che si aggrappano a corde, si tengono connesse tra loro. Una certa sorellanza le unisce e, mi piace pensare, le salva. Il mare non ama le donne.
Sono sempre maschili i corpi che, sopravvissuti alla sua furia, vengono risputati a riva, stillanti di acqua salata. Sono sempre di uomo le voci che urlando tentano di sovrastare quella, mille volte più potente, della burrasca di mare. E certo non sono femminili le mani che governano le navi, le direzionano verso una meta.
Laddove in genere il naufrago è un uomo, esse sono invece le protagoniste di qualcosa che le ha viste testimoni. Lo si vede, lo si capisce dalla postura dei loro corpi, dalla loro posizione nello spazio. Invece di scrutare ansiosamente l’orizzonte in attesa del ritorno della nave che riporterà loro l’uomo amato o qualcos’altro di prezioso – come da secoli ci si aspetta facciano le donne – queste femmine la nave l’hanno vista cedere sotto ai loro piedi. L’hanno sentita inabissarsi al largo e sono stare risparmiate. La corda le ha unite e salvate. Una corda che probabilmente ha scorticato il palmo delle loro mani ma che pervicacemente, testardamente ma con tenerezza anche, esse ancora stringono.
Il naufragio, che comincia in superficie ma si compie nell’abisso profondo del mare, che dopo aver provocato concitazione e urla termina in un silenzio profondo e definitivo, quel naufragio stesso diviene, nelle opere dell’artista, memoria e ricostruzione. La ricostruzione di noi stessi ci costringe a dirigerci altrove. Terra ferma, altre mete.

Elisabetta Polezzo

Diego Pasqualin

Diego Pasqualin
Inaugurazione a Studiodieci

“Così tra questa
immensità s’annega il pensier mio
e il naufragar m’è dolce in questo mare.”
(Giacomo Leopardi, L’Infinito)

Risacca. Proprio così. Mi lascio trascinare dalla risacca delle onde, da quel tormento che non conosce tregua, in un continuo moto che arretra e avanza, risucchia e mi schianta, infrangendomi, contro a dell’altra acqua. A malapena riesco a prender fiato perché, in quel movimento, non vi è bussola o appiglio, perché al suo interno si cela l’eterno. Così il rumore si fa ovattante silenzio, e viceversa. Ancóra: risacca. Àncora: risacca.
La voce per l’aria s’impreme senza inondazion d’aria, e percote nelli obbietti e ritorna  indirieto alla sua causa.
Le percussione de’ corpi liquidi co’ densi son d’altra natura che le percussion predette. E le percussioni de’ liquidi co’ liquidi ancor si variano dalle percussioni antecedenti. Le percussion de’ densi co’ liquidi se n’è veduta sperienza nelli liti marini, li quali ricevano le acque contro alli lor sassi e li spingano infra le erte spiagge; e spesse volte accade che ‘l corso dell’onda non è ancora ammezzato, che le pietre da quella portate ritornano al mare onde di partirono; la riuna delle quali è aumentata colla potenzia dell’onda che ricade dalle alte spinge. 

Alla deriva. Sulla terra. Sul mio corpo. Sulle tue labbra. Nella cultura. Nei sentimenti. Nel futuro. Sono un naufrago: un sopravvissuto che l’esistenza ha restituito prima che decida di riassorbirmi, per l’ultima volta, in quell’andirivieni dal quale provengo. Tra quelle onde che sono i miei giorni, trovo le immagini create da Barbara Pietrasanta e tra quei colori stesi sapientemente, ritrovo anche qualcosa di me, qualcosa del mare e qualcosa che mi invita a proseguire.

Dove inizia la fine del mare? O addirittura: cosa diciamo quando diciamo: mare? Diciamo l’immenso mostro capace di divorarsi qualsiasi cosa, o quell’onda che ci schiuma intorno ai piedi? L’acqua che puoi tenere nel cavo della mano o l’abisso che nessuno può vedere? 
Diciamo tutto in una parola sola o in una sola parola tutto nascondiamo? Sto qui, a una passo dal mare, e neanche riesco a capire, lui, dov’è. Il mare. Il mare. 

Inizio col raccogliere un frammento di corda, anch’essa restituita dal mare. La salsedine l’ha irrigidita e sfibrata; è ruvida e la lascio scivolare sulla mia pelle perché, nel suo abradere, ho la speranza che porti via anche qualche cosa d’altro, che ho affogato dentro di me, in quegli oscuri fondali che un po’ mi accomunano a quel mare dentro. Come dopo il naufragio ci sono scelte da affrontare, decisioni, nuove ancore da costruire e indipendenze da recuperare. Sono presente e assente nel medesimo tempo, un oceano nel cuore e nei pensieri, ma i piedi sulla dura terra; così come le due ragazze del dipinto, con le quali è impossibile pensare di poter parlare. Quel frammento di gomena che una delle due stringe tra le sue mani, mi pare esattamente quello che sento aggrovigliato nel mio petto mentre, quella in piedi, mi mette di fronte all’indecisione di compiere quel passo in avanti che entrambi vorremo, ma che forse, non compieremo mai. C’è sempre quella corda che mi protegge e mi limita. Perché io non sono una venere Anadiomene e, Se ci fosse il mare non ritroverei la mia verginità, ma il mio silente lato infantile, probabilmente, userebbe quella stessa corda, che ancora tengo tra le mani, per iniziare un tiro alla fune tra Me e Me. Ci sono altri Effetti personali sulla battigia, anche il mare, a volte, sembra indeciso: spinge avanti attraverso l’onda frangente e riporta a sé, recuperando nella risacca, quello che ancora non è pronto a lasciare andare.

Comu mare ca fatica
Cu nu lassa terra soa 

Guardo verso l’orizzonte, se è vero che bisogna tornare per poter ripartire, io mi trovo a dover scegliere se salire su La nave di Delo o su un pattino di Salvataggio. Dopo L’ultimo naufragio che l’intera umanità si è trovata a vivere, ho capito che non vi è terraferma sicura perché “Come sul capo al naufrago, l’onda s’avvolve e pesa”, così mi accorgo che tutto intorno a me è alto mare. Mi perdo nelle onde che creo nella mia tazza di caffè,
la stessa bevanda tanto cara a Pietrasanta che, nei suoi “Risvegli”, aveva anticipato, invertendo l’ordine, di quella che potrebbe essere una risposta ai “Naufragi”, dove gli esasperati panneggi dei lenzuoli, ora appaiono ai miei occhi come il fragoroso incresparsi delle onde che si sarebbero stagliate contro le nuove tele di questa raffinata artista. Con ancora in bocca il sapore dell’espresso cerco di aprire bene gli occhi, come dopo un sonno che, però, non ha ristorato le mie membra, ma le ha atrofizzate nell’attesa di potersi destare e tornare ad essere. 

Guardo verso l’orizzonte; guardo verso la riva e non vi è più solo mare perché Il Mare è solo un pretesto per Pietrasanta. È il Mondo che questa pittrice vuole invitarmi ad osservare. La nave dell’io è adagiata sul fondo delle acque che hanno sommerso o, forse, reso visibili i fondali inquinati della società e, la traversata di questo momento storico, ora è carica di quella stessa speranza che potrei rinominare Lampedusa
Forse la risposta è proprio in quel movimento di risacca: non è un semplice guardare indietro, ma ripercorrere una strada a ritroso, per impararne i limiti e gli ostacoli, per offrire una seconda possibilità al frangente e, questa volta, non naufragare, ma approdare su una nuova Terra.

Diego Pasqualin 

Francesco Poli

Con Francesco Poli, Alka Pande, Remen Chopra e Hema Upadhyay per l’inaugurazione di “Cross Polynations”. Teatro Dal Verme, novembre 2006

La pittura di Barbara Pietrasanta ha caratteristiche figurativamente nitide e precise, ma propone una visione della realtà carica di valenze esistenziali e psicologiche di affascinante complessità, da una prospettiva femminile molto accentuata.

Nella sua ricerca l’artista mette in gioco tutti i principali temi fondamentali legati al senso profondo della vita, dei rapporti fra donne e uomini, e in particolare alla inquietante problematica dell’identità individuale. Due dipinti possono esemplificare molto bene il modo con cui Pietrasanta ha affrontato queste questioni. Il primo, intitolato « Il gioco della vita » ci mostra dall’alto il tavolo di un biliardo dove vediamo una mano con una stecca che sta colpendo una biglia, un’altra mano che sta gettando sul tappeto verde dei dadi, e in basso il busto piegato di donna nuda vista da dietro che appoggia sul tavolo il suo volto. Non c’è bisogno di spiegare il senso di fondo di questa composizione che pur avendo forti connotazioni simboliche si impone visivamente per la sua forza espressiva. L’altra opera, tra le più recenti, è un un insieme di sedici piccole tele unite insieme a formare un polittico unitario. Qui vediamo i volti di una donna e di un uomo, con espressioni tese e inquiete. Un barattolo di vernice rossa separa i due volti. Nelle altre tele compaiono solo delle parole in inglese anche sovrapposte: « why », « who », « when », « they ». Anche qui la questione che viene posta è chiara, ma non non ci sono risposte certe. In alcuni altri dipinti la figura femminile è la sola protagonista. E’ il caso di « Petrolio » in cui un nudo (che ricorda la Venere di Botticelli, ma con i capelli neri) e’ immersa nell’acqua limpida che sta per essere contaminata da una colata di petrolio. E anche di « Ovulation », un chiaro omaggio alla mitologia indiana, dove il nudo femminile inginocchiato ha molte braccia e con le varie mani tiene delle uova, simboli di fecondità e vita. La pittura di Barbara Pietrasanta ha caratteristiche figurativamente nitide e precise, ma propone una visione della realtà carica di valenze esistenziali e psicologiche di affascinante complessità, da una prospettiva femminile molto accentuata. 

Nella sua ricerca l’artista mette in gioco tutti i principali temi fondamentali legati al senso profondo della vita, dei rapporti fra donne e uomini, e in particolare alla inquietante problematica dell’identità individuale. Due dipinti possono esemplificare molto bene il modo con cui Pietrasanta ha affrontato queste questioni. Il primo, intitolato « Il gioco della vita » ci mostra dall’alto il tavolo di un biliardo dove vediamo una mano con una stecca che sta colpendo una biglia, un’altra mano che sta gettando sul tappeto verde dei dadi, e in basso il busto piegato di donna nuda vista da dietro che appoggia sul tavolo il suo volto. Non c’è bisogno di spiegare il senso di fondo di questa composizione che pur avendo forti connotazioni simboliche si impone visivamente per la sua forza espressiva. L’altra opera, tra le più recenti, è un un insieme di sedici piccole tele unite insieme a formare un polittico unitario. Qui vediamo i volti di una donna e di un uomo, con espressioni tese e inquiete. Un barattolo di vernice rossa separa i due volti. Nelle altre tele compaiono solo delle parole in inglese anche sovrapposte: « why », « who », « when », « they ». Anche qui la questione che viene posta è chiara, ma non non ci sono risposte certe. In alcuni altri dipinti la figura femminile è la sola protagonista. E’ il caso di « Petrolio » in cui un nudo (che ricorda la Venere di Botticelli, ma con i capelli neri) e’ immersa nell’acqua limpida che sta per essere contaminata da una colata di petrolio. E anche di « Ovulation », un chiaro omaggio alla mitologia indiana, dove il nudo femminile inginocchiato ha molte braccia e con le varie mani tiene delle uova, simboli di fecondità e vita.

Michele Bonuomo

Che cos’altro c’è da aggiungere al tragico elenco di eccessi da tutti vissuti negli anni appena trascorsi? Forse nient’altro. Abbiamo consumato tutto il consumabile con una furia da antropofagi:con troppa irruenza e con scarsa progettualità abbiamo abbattuti i “muri”. Con sospetta frettolosità abbiamo liquidato le ideologie. Con irriducibile determinazione abbiamo divelto ogni ancoraggio con la storia, e la pittura, esaurito l’ottimismo sfacciato del mercato, non è più la grande coscienza del mondo. Solo per pochi coraggiosi continua ad essere una pratica estrema. Per quei pochi infatti che non hanno più voglia di nascondersi dietro bellurie, falsi miti, vuote provocazioni, sfrontatezze senza eroismi. I gesti esemplari di chi ha messo a repentaglio la propria esistenza, vivendo passioni e tensioni senza ritorno, sono stati equivocati dai più o reinterpretati come brani di una rappresentazione vuota e accademica. Le lacrime, il sangue e lo sperma troppi li hanno acquistati già liofilizzati e consumati nel fast food della banalità quotidiana. E così le luci si sono spente su un palcoscenico da triste avanspettacolo.. Anche le mille luci di New York sono un fioco lumicino che getta ombre sinistre su una tragica solitudine. Barbara Pietrasanta di tutto questo è stata testimone, lo ha sentito sulla sua pelle, lo ha catturato con i suoi occhi voraci. Ma senza cadere in trappola, senza diventarne vittima. Con lucida determinazione, ha messo ordine nelle sue passioni, sezionando come su un tavolo di una morgue i cadaveri delle vittime del suo tempo, i misteri di un eros che non chiede più travestimenti edonistici per far esplodere le contraddizioni, per scompaginare le regole di ipocrite e perbenistiche perversioni. Nelle sue tele i gesti sono calcinati come quelli di un fregio ellenistico, i corpi sono ridotti a brandelli dalla luce gelida di un flash: vivono nel buio e solo per un attimo si rivelano nella loro dimensione visionaria. Con una pittura netta, che non induge a calligrafismi iperealistici, Barbara Pietrasanta mette in atto un gioco costante di spiazzamenti, di situazioni e di significati, di scambi di ruoli tra l’Artista che dipinge e il soggetto rappresentato, in cui solo la pittura è in una posizione di forza. Tutto il resto è messo in discussione. Barbara Pietrasanta forse, ha scelto la strada più difficile, forse la più vulnerabile. Ma l’unica lungo la quale è impossibile barare.

Patrizia Raveggi

Con Patrizia Raveggi alla collocazione della scultura “Don’t look inside” nella Collezione Farnesina.

Barbara, che da Milano attraverso New York da anni sferra le sue risposte (o scaglia i suoi interrogativi: Why? Where? Who? sparsi nella recentissima opera “15 words and a red dot”) ripetendo i temi che l’ossessionano, contro il collasso, la frana, la cancrena con cui il volto della societa’ si manifesta, usando il (proprio o altrui) corpo per filtrare l’attualita’ (la catastrofe epocale incarnata nelle due gemelle di “11 settembre”, la bellezza classica su cui incombe ineluttabile violazione, nella silhouette rinascimentale di “Petrolio”; lo straniamento, spaesamento, solitudine, nel travestito di “Leslie”, la doppiezza nei due profili affrontati (l’angelo della storia di Benjamin?) di “Senza titolo”; la crudelta’ di chi ci e’ vicino, ci giudica e condanna nella farfalla trafitta di “Condominio”) o per ritrarre il rigoglioso respiro del consumismo (il busto leonardesco di Icona 1) unendolo alla natura ed alla storia (“Oltre il muro” Beyond the wall).
Nel filo delle trasformazioni, nel maturarsi ed ampliarsi della sua gamma creativa (senza esitare ad usare la tecnica dell’affresco, oggi assai poco frequentata, in un imponente ciclo dedicato alla Via Crucis) e’ riconoscibile la continuita’, il senso del complicato e del molteplice, del relativo e dello sfaccettato che determina in lei un’attitudine di perplessita’ sistematica.
Da sempre le opere di Barbara si possono agevolmente leggere in chiave narrativa, ci sono sempre uno o piu’ personaggi – o parti di personaggi- in scena, al centro o ai margini, quella di Barbara non e’ una visione dell’assenza, evita le sfumature ermetiche, si indirizza ad un’espressivita’ il cui apparente realismo si filtra tuttavia di memoria o nostalgia, di un sottile pervasivo senso di precarieta’.
L’atteggiamento distaccato, al tempo freddo e struggente, lo sguardo deluso dai rapporti con il mondo che equivale ad uno scacco sul piano pratico, si rivale sul piano della trasfigurazione lirica: Barbara intinge in coloriture indiane lo sfondo di un (auto?) ritratto concepito quando, correva l’anno 2002, l’India era evocata come un’ipotesi dell’irrealta’. All’ India dedica “Ovulation”, connubio fantastico della Dea Kali (in una mitigata versione ad uso occidentale) e simboli di fertilita’, muovendosi cosi’ con fermezza e con largo anticipo verso l’auspicato incrocio e fusione.
E’ stato osservato che, volendo a tutti i costi etichettare l’arte contemporanea, la si potrebbe definire come un progressivo processo di disidentificazione e sradicamento rispetto alle proprie tradizioni, un continuo strapparsi dalla propria radice, “nella consapevolezza che la propria radice e’ paradossalmente questo stesso strappo”.
Il senso del cammino e’ dunque proprio in questo volontario strappo finalizzato a procedere verso una civiltà fatta di intrecci, incontri e scambi continui tra sponde, popoli, culture, individui, tra colori e suoni diversi.
Come le storie narrate, cosi’ le opere d’arte non possono essere chiuse nei limiti di un unico orizzonte; le culture e le tradizioni sono sempre luoghi di traduzione e di trasformazione e di transito, luoghi – fisici o immaginati – in cui si possono tracciare diversi percorsi in un mondo differenziato, eterogeneo.

Maria Torelli

Con Maria Torelli e Salvatore Sebaste all’inaugurazione della mostra a Metaponto Rassegna “Luglio in Cultura” Ass. Culturale La Spiga D’oro, luglio 2010

Barbara Pietrasanta o il Rinascimento desaturato.
Una narrazione totalmente obiettiva non esiste, e non esiste nemmeno opera di fantasia che sia del tutto slegata dalla realtà. La consapevolezza di questa contaminazione si scorge negli olii di Barbara Pietrasanta, che raccontano il mondo senza false retoriche. L’uso di alcune tecniche della comunicazione pubblicitaria e visibile, non per questo prevaricante; pittosto è la fotografia che si fa “ancella” della pittura e in tal modo ci fa apprezzare ancora di più la capacità tecnica dell’artista. Il tratto gioca con la sua abilità nel riprodurre realisticamente il mondo, con un registro che potrebbe dirsi cinematografico, documentaristico: campi delimitati da rette come nelle striscie dei fumetti o nella fotocomposizione di una pagina di rotocalco, ma anche come espediante già usato dai miniatori di manoscritti; la differenza è tutta nel concetto di pari dignità che per questa pittrice ha ognuno dei segmenti della storia raccontata; riquadri – come quadri nel quadro, dunque – che sembrano riproporre gli “scompartimenti” mentali in cui le sensazioni e i ricordi vengono riposti in una immaginaria soma di tutte le loro possibili combinazioni. Gli edifici sono derivazioni architettoniche appartenenti più alla Metafisica, con I loro scorci inquietanti ( come nei quadri “Salto” e “Il condominio”) che semplice sfoggio di abilità tecnica nel disegno. Vi è spazio anche per rimandi all’optical art, ad Escher, in composizioni in cui il grigiore della vita moderna brulicad’insetti, veri padroni delle nostre città, o in momenti di più amara ironia in cui le braccia umane sembrano di volta in volta lottare o stringersi, fondendosi in tinte livide come il metallo di una statua. Lo studio della monocromia, l’utilizzo di colori freddi ma sempre nella loro luce più attutita, mettono a fuoco immagini dal netto realismo in cui domina comunque un sottile riferimento magrittiano: oggetti di uso commune dotati all’improvviso di un’anima spaesante, comunissime “cose” che, per il solo fatto di essere fuori dal loro contesto, acquistano un peso straordinario. Mediante questo accorgimanto l’artista fa rivivere l’antico enigma del ritratto rinascimentale. Nei ritratti di Leonardo Da Vinci, di Raffaello, di Piero Della Francesca, il simbolismo degli oggetti presenti suggerisce il mondo interiore dell’uomo della donna: Barbara Pietrasanta si riappropria di questa tecnica e ne amplifica i particolari, li riproduce con precisione quasi fotografica per consegnarceli puri nella loro inspiegabilità. Come un reportage che congeli l’attimo ed esplori tutte le possibilità pratiche e teoriche del suo universo di significati semiologici. Non a caso è umanistica l’attenzione posta al rapporto fra uomo e natura, è laica la ricerca di valori etici che siano validi per una società multietnica come quella che in queste opere ci viene raccontata. Ed il rimando a un retroterra classico, sempre ricondotto alle esigenze e al sentire contemporaneo, è anche nell’indagine sul nudo, fisico e spirituale: cosa significa – ed è ancora possible – essere veramente nudi in una civiltà come quella contemporanea? Questi non sono corpi di modelle che vogliono venderci qualcosa, sono uomini e donne che si offrono a noi nel momento in cui, per solitudine, per prostrazione, ma anche per autoconsapevolezza, hanno da offrire non bellezza, né competenze tecniche, né potere, ma solo quello che sono. Protagonisti di odissee metropolitane che si svolgono nei “condomini”, fra i container di un porto industriale, o nel silenzio di un proprio io. Il vuoto dunque che parla, che porta, come nella meditazione o nella preghiera (per esempio in opere come “Ovolution”, “Meditazione” e “Petrolio”) ad un confronto con I limiti dell’uomo o con la divinità. E’ un’umanità che attende qualcosa mentre svolge le proprie azioni quotidiane, mentre gioca a biliardo con la propria vita. Le opere di Barbara Pietrasanta hanno un sentimento metafisico di straniante attualità, mostrano I fantasmi del reale che ci camminano accanto: misteriosi e a volte drammatici, ma mai cupi. Forti di un equilibrio formale e diu un gusto del paradosso per cui svestire di orpelli significa arricchire di echi e riflessi ogni imagine. Scavo profondo nelle pieghe interiori di un’umanità intense e dignitosa anche nel proprio smarrimento.

Vanna Mazzei

Barbara Pietrasanta con Vanna Mazzei all’inaugurazione della mostra “Ruotando” al Linear Ciack Milano

Nel labirinto della femminilità. Oggi, di fronte ad un consapevole e accettato tramonto della vita, mi scopro a riflettere con un sentimento nuovo su un tema che in gioventù, nel pieno di una femminilità agita, ho affrontato in modo superficiale e scontato e che mi aveva appena e superficialmente colpito Un’occasione particolare mi ha proposto una riflessione intima e personale sull’argomento: l’incontro con l’arte di Barbara Pietrasanta. E’ stato un incontro casuale? Forse, tendo a pensare che nulla avviene per caso, o meglio che noi osserviamo e siamo colpiti da ciò che in quel momento urge ed è già presente dentro noi stessi. Quando mi sono soffermata ad osservare i quadri di Barbara mi è venuta prepotentemente alla mente una parola: femminilità e subito un caleidoscopio di aspetti e sensazioni mi ha immerso nella ricerca di un’impossibile spiegazione del senso di questa parola e dell’eros che inevitabilmente esprime. Dai quadri che osservavo emergeva una storia che mi parlava e mi intrigava nella quale mi riconoscevo come donna e come femmina. Colori scuri accanto a pastelli chiari, ombre generate dalla luce, un gioco di contrasti che occhieggia ad un mistero, braccia raccolte a difendersi, nascondere e lasciare intuire un fascino femminile ambiguo e ammiccante che non si esprime tanto nell’avvenenza fisica quanto traspare da un eros antico, archetipico; mistero avvolto nel gioco di ombre e luci inattese e intense, una dimensione intima racchiusa nel muoversi di un velo nero.Ma la femminilità non è solo inclusione, appagamento e abbandono, racchiude in sé tutta la complessità della vita che lei stessa è capace di dare. Nel femminile emerge prepotente la volontà di prendere, afferrare, racchiudere in sé e determinare la propria sorte nella consapevolezza che nelle proprie mani si dipana il destino del mondo che un’atavica forza racchiude nell’ambiguità del mistero della femminilità. Lo sguardo è serio, diretto e intenso; i pugni chiusi per prendere, afferrare, affermare e affermarsi, perché quelle mani racchiudono e difendono la vita, perché in quelle mani si dipana il destino del mondo e lì è la soluzione. E in qualche parte, laggiù, lontano dove si potrebbe afferrare e svelare il senso, dove gli eventi hanno un loro evolversi nell’asperità della vita, dove l’unione crea futuro e fantasmi, là dove il mistero si apre all’eros e alla vita, laggiù dove tutto si svela, dove sappiamo che l’attesa avrà termine, nella Parigi simbolo di amore, sangue e rivolta, laggiù non ci sarà spiegazione perchè intanto a Parigi dormono. Un abbraccio ambiguo, protettivo e mortale che pare dire: “ Vieni, ti avvolgo, ti chiudo in me e ti porto in un mondo oscuro e sconosciuto, ti includo e ti trascino nel mistero infinito che unisce uomo e donna.” Poi ti lascio e mi abbandono. Fragilità e languido appagamento in un letto sfatto dove il senso della vita è immediato, dove niente resiste del passato, niente si aspetta dal futuro. “Ora e non prima” è il senso, l’attimo in cui si palesa il significato e il valore fra sogno e realtà. Accanto restano trascurabili frammenti, simboli di un amore ricevuto, conquistato, di una femminilità che contemporaneamente si offre e rapina. E se la vita è rappresentata da trascurabili frammenti è in quelli che ci esprimiamo maggiormente, è in quelli che siamo veramente noi stessi. Disperazione e ironia, mistero e dubbio, cattiveria, tenerezza, sofferenza e passione, forza e languore scandite in un ritmo dove la ritrosia si mescola alla spudoratezza dei sentimenti ben oltre la patina della bellezza in una inafferrabile solitudine. Mistero Forse è indispensabile per la femminilità che il suo mistero non venga svelato. In uno sguardo schiudo il mio mistero Nelle mie mani plasmo il mio destino Ti amo? Forse Ti lascio? Forse Ti voglio? Forse Ti prendo? Forse Sfido la vita.

Dario Rivarossa

Dario Rivarossa

Sono pochissimi gli artisti nel nostro Paese che sappiano ancora utilizzare la tecnica con cui Giotto e Michelangelo realizzarono capolavori assoluti. Tra i rari maestri che hanno conservato gli antichi segreti dell’affresco, troviamo personaggi assai diversi per formazione e stile. In comune, hanno la ricerca di Dio e l’attenzione all’uomo.

Chi, alla fine del Quattrocento, avesse cercato di intervistare Michelangelo mentre dipingeva la Cappella Sistina, si sarebbe trovato di fronte a un omaccio abbruttito con la barba ispida, che lo avrebbe cacciato fuori in malo modo. Ma i tempi sono cambiati. Oggi, chi volesse incontrare l’autore degli affreschi nella chiesa della Sacra Famiglia a Cinisello Balsamo (Milano), scoprirebbe che si tratta di un’affascinante quarantenne, che si è formata in America e alterna l’amore per l’arte al lavoro in un’agenzia pubblicitaria. Si chiama Barbara Pietrasanta, ed è una delle pochissime persone in Italia a saper ancora fare il “buon fresco”: tecnica lunga e difficile, che perciò rischia di estinguersi proprio in Italia, dove ha dato il meglio di sé nei secoli passati.

Perché questo interesse per un modo di dipingere che sa di Medioevo? «Sembrerà strano», risponde Pietrasanta, «ma tutto è nato con il mio approdo a New York nel 1984. Dopo la mia prima mostra di quadri laggiù, sono stata contattata da un affrescatore di origini molisane, che aveva aperto una scuola. Aveva bisogno di un assistente per realizzare un enorme affresco in un locale del Connecticut, che riproducesse una serie di paesaggi del Canaletto. Era una tecnica che non avevo mai affrontato: l’ho imparata lavorando a bottega da lui. Già, perché negli Stati Uniti l’affresco piace, e viene utilizzato non solo nelle chiese, ma anche nei bar».

Armando Cattaneo

Armando Cattaneo

Don Armando Cattaneo.-” Pietrasanta non è autrice di arte sacra. Ma di intensa umanità certamente sì – rifletto tra me- e da quando Dio s’è fatto uomo…nulla è più sacro dell’umanità e nessuna arte è più sacra di quella che sa dare gloria all’uomo vivente”.
Le metto tra le mani il testo del vangelo secondo Luca e lei mi spalma quelle parole succose e “nuove” tutt’intorno a una figura imponente di donna e di madre. Insieme Eva e Maria. Pura teologia visiva!
Un giorno lei mi confida che desidera lavorare a fresco, ricuperando la più nobile e duratura tecnica di pittura di tutta la storia; quella che ha colmato l’Italia di capolavori: dalla Cappella Brancacci di Masaccio alla Cappella Sistina di Michelangelo, dalla Basilica di San Francesco di Giotto, alle Stanze Vaticane di Raffaello.
Mi stupisco e non a caso: la Pietrasanta infatti è oggi l’unica donna in Italia a dipingere a fresco. Dopo averne imparata la tecnica dove? A New York, of course! Perchè nella sua patria nessuno più la insegna!
Colgo l’attimo fuggente e propongo un “lavoretto” nella chiesa parrocchiale Sacra Famiglia di Cinisello, che nel frattempo era diventata la Chiesa di cui sono Parroco.
L’architettura certo non ne è esclusa. Nessuna opera è d’arte, secondo me, se non ha doti architettoniche! Ma lei la recupera all’interno di una spazialità nuova, determinata appunto dall’abitudine al quotidiano messaggio pubblicitario più che dall’andamento classico, ormai introvabile nel ritmo della vita metropolitana.
Il sacro è un recinto stereotipato e ripetitivo, chiuso e conservatore. Gesù Cristo ha patito i “sacer” doti schierati a difesa del “sacer” sistema. Barbara semplicemente lo evita, vola più alto.


Conosco Barbara Pietrasanta grazie ad un comune amico, a Milano, a un passo dal Duomo.
Vedo alcuni suoi dipinti dalla corporeità prorompente e stranamente mi fanno pensare all’interiorità. Osservo in essi scene desolate e vi colgo dignità. Vedo volti degradati dalla solitudine, logorati dal male di vivere e intuisco in essi voglia di riscatto. Un paradosso.
Così decido di scommettere e le affido un lavoro. Ma non si tratta di una grande parete. Troppo facile. No, offro a Barbara quattordici pilastri di cemento armato, con superfici utili di 40 centimetri di base per 160 di altezza. Non esattamente quello che i pittori sognano … Barbara non fa una piega: cosa volete che sia per una che dipinge per sfogarsi, per esprimersi, mentre il suo lavoro quotidiano è capitanare un’agenzia grafica, invasa di pubblicità, stretta tra poster e packaging? Per lei questo formato è perfetto! Lei non cerca la solenne composizione architettonica del pittore classico, ma il taglio fotografico! La sua mano dipinge ma il suo occhio fotografa e la sua mente zooma, taglia, incolla, compone.
In breve: a Barbara riesce bene pitturare questi pilastri, forse perché è più familiare con le pagine delle riviste (che sono verticali) che con la pittura classica (che usa le tele in orizzontale).
Mese dopo mese , la strada della croce prende forma e colore. Di sorpresa in sorpresa. Sì perché forse con l’intuizione tipica di donna, mentre dipinge, Barbara scrive un piccolo, prezioso testo di teologia.
La sua Via Crucis è umana e teologica insieme; cristiana ed evangelica, descrittiva e metafisica.
Barbara non era una pittrice di arte sacra prima della Via Crucis. E non lo è neppure dopo. È una donna che si appassiona al vangelo e compie il suo percorso di ricerca, come ogni vero credente è chiamato a fare. come ogni vera personalità di oggi fa.